Tutti abbiamo un piccolo “capitale biografico”. Fatto di storie di vite vissute. Di racconti emozionanti d’altri tempi, tramandati dal nonno davanti al caminetto. Di microstorie, ricordi e memorie familiari, custodite tra le pagine ingiallite di un diario o sotto la polvere che ricopre l’album di famiglia. Si tratta di un patrimonio soggettivo e individuale ad alto potenziale narrativo. Ma quasi mai diventa un racconto organizzato in forma di testo. Ed è un peccato.

Quel patrimonio di voci e di ricordi si affievolisce e si perde con il trascorrere degli anni. Da qui – memorabilità, potenziale narrativo e labilità della memoria – nasce la proposta di storie familiari. Obiettivo: fissare su carta il viaggio attraverso la vita di generazioni di uomini e donne comuni. Generazioni che non troveranno posto nei volumi di Storia, ma che tuttavia sono gli antenati, gli avi da cui discendiamo. Nel caso degli oriundi, poi, le storie familiari si colorano di particolari sfumature e significati. La narrazione soddisfa alcune esigenze profonde dell’uomo, tra cui il bisogno di collocarsi in un orizzonte di senso, il bisogno di mettere assieme i frammenti sparsi di un’identità, il bisogno di appartenenza a una famiglia o a una comunità.

Gli avi che lasciarono l’Italia, compirono – letteralmente – un’impresa individuale e collettiva ad alto tasso di difficoltà. Pagarono un prezzo altissimo in termini di sofferenze, lontananza dagli affetti, sradicamento dai luoghi natii. Ma seppero adattarsi al nuovo ambiente, superare ogni sorta di ostacoli, contribuendo a costruire il benessere e l’economia dei paesi ospitanti. Raccontare in un libro queste vicende significa non solo metterle a disposizione delle prossime generazioni, ma lavorare sull’identità dell’individuo costruendo un ponte tra passato, presente e futuro.

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